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Penalisti Torino: diffamazione tramite Whatsapp

diffamazione tramite whatsapp Penalisti Torino

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Si può rispondere di diffamazione tramite lo stato di WhatsApp?

Penalisti Torino

L’ 8 settembre 2021 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna del ricorrente per aver pubblicato dei contenuti lesivi per la reputazione di una donna tramite il proprio stato di WhatsApp.

Tale condotta, secondo la Suprema Corte, integra il reato di diffamazione.

Secondo l’art. 595 del codice penale sussiste il reato di diffamazione qualora “chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione”.

Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, il ricorrente aveva pubblicato sul suo stato di Whatsapp contenuti ingiuriosi visibili a tutti i contatti presenti nella rubrica dello stesso.

L’imputato fondava il ricorso sulla mancanza di una prova certa del fatto che i messaggi fossero rivolti effettivamente ad una persona nello specifico e che gli stessi potessero essere visti da tutti i suoi contatti nel telefono.

I Giudici ritengono, però, sussistere il fine denigratorio.

Infatti, se il soggetto avesse voluto semplicemente rivolgersi alla persona interessata senza offenderla pubblicamente, non avrebbe utilizzato come mezzo lo stato sul social network.

Sarebbe stato più coerente con la giustificazione addotta dal ricorrente inviare un messaggio privato all’interessata, senza rendere visibile a tutti la questione.

Penalisti Torino: la diffamazione nel mondo virtuale

La Corte di Cassazione ha già affrontato questioni legate al reato di diffamazione nel mondo del web.

Nel 2019 la Suprema Corte con la sentenza del 21/02/2019 n. 7904 si pronunciava su un’altra questione legata al reato di diffamazione tramite la piattaforma di WhatsApp.

Quel caso riguardava un soggetto che aveva inviato dei messaggi offensivi in una chat di gruppo in cui vi era anche la persona a cui tali offese si riferivano.

La Suprema Corte confermava la colpevolezza di tale soggetto sulla base del fatto che “sebbene il mezzo di trasmissione/comunicazione adoperato consenta, in astratto, al soggetto vilipeso di percepire direttamente l’offesa, il fatto che messaggio sia diretto ad una cerchia di fruitori, fa si che l’addebito lesivo si collochi in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso“.

Ancora, nel 2017 la Corte di Cassazione confermava l’orientamento secondo il quale i social network risultino essere un mezzo idoneo per la consumazione del reato di diffamazione, affermando che “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 terzo comma del codice penale, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone”.

Sono pertanto sufficienti due requisiti per integrare il reato di diffamazione anche a livello virtuale:

  • la presenza di un contenuto offensivo;
  • fare in modo che numerose persone possano vederlo.

Per ulteriori chiarimenti in materia contatta l’Avvocato Gabriele Pezzano.

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